Il concetto espresso dalla frase «la ricchezza non produce la felicità» è dibattuto fin dai tempi antichi. Aristotele: “È chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa infatti ha valore solo in quanto “utile”, cioè in funzione di qualcos’altro.
Quasi tutte le ipotesi per spiegare cosa rende felice l’uomo rimandano più o meno direttamente alla necessità “economica” di inserire nell’analisi delle ricchezze un’altra categoria di beni: i beni relazionali.
Per beni relazionali si intende il patrimonio inerente l’ambito familiare, affettivo e civile della partecipazione alla vita sociale/volontariato e politica della propria comunità.
È interessante osservare che molte ricerche mettono in luce che per i beni relazionali, come ad esempio il matrimonio, dei figli, gli amici, i rapporti legati all’occupazione lavorativa, … l’adattamento e delle aspirazioni non è totale e la felicità, (o infelicità nei casi negativi), pur diminuendo nel tempo rimane comunque più elevata.
Sarebbe poi, secondo molti, da considerare nell’analisi economica anche il patrimonio ambientale su cui confluiscono gran parte delle “esternalità” negative, (inquinamenti di vario tipo e consumo delle fonti non rinnovabili), non conteggiate nel bilancio della logica economica del mercato.
Ci sono cioè dei beni che il denaro è capace di comprare e spesso sacrificati al fine di conseguire il reddito monetario necessario per acquistare i “beni di consumo”, (si pensi al tempo crescente che le attività lavorative rubano alle relazioni familiari e ai rapporti di amicizia).
Rappresentazione matematica del paradosso di Easterlin relativo alla felicità.
Se indichiamo con:
“F”: la felicità di un individuo (considerandola una variabile misurabile cardinalmente),
“I”: il reddito (inteso come mezzi materiali),
“R”: i “beni relazionali”,
e ignoriamo altri elementi importanti, possiamo scrivere:
F = f(I,R)

Possiamo esprimere cioè la felicità come una funzione del reddito individuale e beni relazionali. Se è vero e ragionevole supporre che l’effetto complessivo del reddito (I) contribuisce direttamente alla felicità soprattutto per bassi livelli di reddito, bisogna anche considerare che, dopo aver superato una certa soglia, questo può diventare negativo poiché l’impegno per aumentare il reddito (assoluto o relativo) può produrre sistematicamente effetti negativi sui beni relazionali, sulla qualità e quantità delle nostre relazioni, (ad esempio a causa delle risorse eccessive che impieghiamo per aumentare il reddito e che sottraiamo ai rapporti umani), e quindi, indirettamente, potrebbe smorzare, o addirittura ribaltare l’effetto totale diminuendo la felicità. Le diverse ipotesi prima illustrate, insieme ai nostri limiti cognitivi e ai condizionamenti sociali spiegano perché inconsapevolmente non ci comportiamo razionalmente e superiamo il punto critico.
Conclusioni:
Una delle macroconclusioni sembra essere quindi che ricchezza, (o utilità), e felicità (o benessere sociale), non sono la medesima cosa, perché per essere più felici non basta cercare di aumentare l’utilità, (prodotti, beni, servizi), bensì, almeno in maniera prevalente, è necessario addentrarsi nella sfera della relazione tra le persone.
Tra le tante soluzioni proposte, lo stesso Easterlin suggerisce che, poiché ciascun individuo possiede un certo ammontare di tempo da allocare tra diversi domini monetari e non, quali:
- Reddito e beni materiali,
- Famiglia,
- Stato di salute,
- Lavoro,
- Stabilità emotiva,
- …
Per aumentare la propria felicità, sarebbe meglio destinare il tempo a quei domini in cui l’adattamento alle novità e o il confronto sociale sono meno importanti, ad esempio nei beni relazionali o “beni non posizionali”. È un po’ come dire che “per essere felici bisogna essere almeno in due”.
Buona riflessione
Massimo